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Una lettera anonima, un innocente condannato e poi assolto, un’indagine lacunosa. Sono gli elementi da tenere a mente in questo cold case.
Lidia Macchi ha 21 anni quando scompare nel nulla, il 5 gennaio del 1987. Frequenta il secondo anno di Giurisprudenza all’Università del Sacro Cuore di Milano. E’ una studentessa diligente, impegnata in parrocchia e nel sociale.
Il giorno della sua scomparsa Lidia va a fare visita a un’amica ricoverata in ospedale, a Cittiglio, nel Varesotto. L’amica è l’ultima a vederla viva. Lidia si trattiene con lei circa mezzora, poi intorno alle 20.10 si mette alla guida della sua Fiat Panda per tornare a casa. Da quel momento di lei non si sa nulla.
Due giorni dopo il corpo di Lidia viene ritrovato in un boschetto, a due passi da Varese. Dall’autopsia emerge che la ragazza è stata accoltellata 29 volte e che prima di essere uccisa ha avuto il suo primo rapporto sessuale.
Nel giorno del funerale arriva ai familiari di Lidia una lettera anonima, intitolata In morte di un’amica. È una poesia dove, fra le altre cose, la vittima viene chiamata “agnello sacrificale”. La lettera viene attribuita a Stefano Binda, ex tossicodipendente e amico stretto di Lidia, con la quale frequenta la parrocchia.
Nada Cella è una ragazza di 25 anni. Lavora da cinque anni come segretaria nello studio del commercialista Marco Soracco, a Chiavari, in provincia di Genova. La mattina del 6 maggio di 28 anni fa, è il 6 maggio del 1996, Nada Cella viene trovata in fin di vita dal suo datore di lavoro.
Come ogni mattina Soracco, che vive al piano di sopra insieme alla madre, entra nel suo ufficio e trova la segretaria riversa per terra vicino alla scrivania. La ragazza muore in ospedale poche ore dopo. E’ stata colpita alla testa ripetutamente e con grande violenza con un corpo contundente da una persona che quella mattina è entrata nella sua stanza.
I primi sospetti si concentrano su Marco Soracco, poi si spostano su una conoscente del commercialista, Annalucia Cecere, insegnante, che pare abbia un debole per lui. La donna è stata vista da testimoni aggirarsi quella mattina uscire dallo studio di via Marsala, dove lavora Nada Cella. Gli investigatori vanno a casa della Cecere e trovano dei bottoni, molto simili a quello ritrovato vicino al corpo della vittima.
Segue una lunga fase in cui le indagini non hanno sbocco, anche perché la scena del crimine è stata fortemente contaminata. La madre di Soracco ha perfino lavato con uno straccio la scala e il ballatoio davanti all’ufficio del figlio.
La scomparsa
Liliana Resinovich scompare il 14 dicembre del 2021. L’ultimo a vederla viva è il marito, Sebastiano Visintin.
Quella mattina Liliana esce di casa con l’intenzione di buttare dei sacchi di immondizia nei bidoni della differenziata, ma non porta con sé né il cellulare, né il mazzo di chiavi. Il suo ultimo tragitto a piedi viene immortalato dalle telecamere di videosorveglianza della vicina scuola di polizia. Da quel momento di Liliana si perdono le tracce.
Il ritrovamento del corpo
A denunciare in ritardo la scomparsa è il marito, Sebastiano Visintin. Il corpo di Liliana viene ritrovato il 5 gennaio del 2022 nel parco dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, a meno di un chilometro da casa. Il cadavere è chiuso dentro due sacchi per i rifiuti, la testa è avvolta in due buste di plastica, intorno alla gola un cordoncino lasco. Dall’autopsia emerge che la donna è morta per scompenso cardiaco acuto. La prima ipotesi formulata è il suicidio, ma questa pista appare da subito improbabile per il modo in cui è stato ritrovato il cadavere. Possibile che abbia fatto tutto da sola? La famiglia della donna, compreso il marito, non crede a questa ipotesi e insiste per non fare archiviare il caso, ma Sebastiano Visintin poi cambia versione e parla di suicidio. L’amico intimo di Liliana, Claudio Sterpin continua a essere convinto che Liliana non si sia suicidata.
Tutto lasciava pensare che si trattasse di un omicidio di Camorra, ma la storia invece è un’altra. Partiamo dai fatti. Il 3 marzo del 2022 i Carabinieri trovano ad Acerra, in provincia di Napoli, una Fiat 600 in fiamme, nel cui abitacolo viene rinvenuto il corpo carbonizzato di Domenicantonio Vellega, 48 anni, con alcuni precedenti penali. All’inizio si avvalora la pista della criminalità organizzata o addirittura del suicidio, ma la verità è ben più inquietante.
Secondo gli investigatori, dopo una violenta lite la vittima viene tramortita nella sua casa di Marigliano dalla moglie e dall’uomo con cui la donna ha una relazione. Domenicantonio viene condotto ad Acerra con la sua auto, dove la coppia gli dà fuoco, mentre è ancora vivo, per cancellare ogni traccia.
La coppia criminale ha anche provato a depistare le indagini, avvalorando l’ipotesi di un omicidio di Camorra. In casa della vittima, a Marigliano, la coppia lascia a bella posta una pistola carica, in modo da farla ritrovare agli investigatori. Però quella pistola durante la prima perquisizione dei militari non c’era. Anche l’ipotesi del suicidio non regge: perché Domenicantonio avrebbe dovuto abbassare i due sedili anteriori della sua Fiat, se voleva soltanto uccidersi?
Il caso che affrontiamo oggi si è riaperto dopo quasi due anni di buio. Andreea Rabciuc è una ragazza di 27 anni, lavora in un pub di Jesi, in provincia di Ancona.
La notte del 12 marzo del 2022 si trova in una roulotte a Montecarotto, in compagnia del fidanzato Simone Gresti e di altri due amici per una festa. Dopo una lite con il fidanzato, alle 7 del mattino Andreea si allontana a piedi e senza il cellulare, che ha lasciato nella roulotte. Da quel momento di lei si perdono le tracce. Almeno questa è la versione fornita da Simone Gresti alla madre della ragazza.
Caso Andreea Rabciuc TGR Marche 25 gennaio 2024
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Il caso che affrontiamo oggi si è riaperto dopo quasi due anni di buio. Andreea Rabciuc è una ragazza di 27 anni, lavora in un pub di Jesi, in provincia di Ancona.
La disperazione della madre di Andreea Rabciuc
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La svolta arriva il 20 gennaio scorso, quando in un casolare abbandonato a Castelplanio, a un chilometro di distanza dal luogo dove è stata avvistata l’ultima volta due anni prima, vengono trovati dei resti umani. A dare l’allarme è uno dei proprietari del casolare. I Carabinieri del Ris arrivati sul posto trovano cadavere in avanzato stato di decomposizione e alcuni indumenti, riconducibili ad Andreea Rabciuc. Solo l’esame del DNA può dare la certezza che si tratti proprio di lei.
E’uno dei grandi casi della cronaca giudiziaria, conosciuto come la “strage di Erba”, un massacro avvenuto l’11 dicembre del 2006. Una vicenda che ha scosso e diviso l’opinione pubblica per la sua efferatezza. Quattro le vittime, fra cui un bambino di due anni. I coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno ucciso, a colpi di spranga e di coltello, per le continue vessazioni subite dai vicini di casa. Con questa motivazione i coniugi sono stati condannati all’ergastolo.
Adesso, dopo 17 anni, arriva un colpo di scena: la Corte d’Appello di Brescia accoglie l’istanza di revisione del processo avanzata dagli avvocati di Olindo e Rosa, che il primo marzo saranno di nuovo in aula. Ci sono nuove prove che la Corte dovrà valutare: intercettazioni ambientali, telefoniche, audio e video, nuove consulenze, nuovi testimoni. Fra loro c’è un uomo che, secondo i legali della difesa, avrebbe riferito di una faida con un gruppo rivale individuando
nella casa della strage “la base dello spaccio” nella vicina piazza del mercato. Un nuovo movente per la strage, che a questo punto poco avrebbe a che fare con l’odio dei coniugi.
Nella Giornata contro la violenza sulle donne, lo scorso 25 novembre, è partito il progetto di RaiNews.it dedicato a quelle donne e ragazze uccise sulla cui sorte non è ancora stata fatta giustizia. Oppure casi che non sono stati risolti dopo tanto, troppo tempo. Dal profilo Instagram @rainewsofficial, vi stiamo raccontando le storie che potrete approfondire su queste pagine con servizi dei telegiornali d'epoca e attuali, immagini, video e documenti originali. Questa settimana il caso di Antonella Di Veroli, con le testimonianze esclusive della sorella Carla e del giornalista Flavio Maria Tassotti che, insieme a Diletta Riccelli, ha raccolto nuove prove per far ripartire le indagini.
Il caso che vi presentiamo oggi è il classico “mistero della camera chiusa”, così si definisce un delitto che avviene in un ambiente senza apparenti vie di fuga. Parliamo di un omicidio avvenuto quasi 30 anni fa, nella stanza da letto di un appartamento, a Roma, nel quartiere Monte Sacro. La vittima è Antonella Di Veroli, una donna single di 47 anni. Una commercialista dalla vita metodica e schiva. Qualcosa di veramente insolito deve essere avvenuto quell’aprile del 1994, se Antonella non si presenta al lavoro come fa tutte le mattine. I suoi amici e familiari, da quel momento, perdono le tracce della donna.
Nella Giornata contro la violenza sulle donne, lo scorso 25 novembre, è partito il progetto di RaiNews.it dedicato a quelle donne e ragazze uccise sulla cui sorte non è ancora stata fatta giustizia. Oppure casi che non sono stati risolti dopo tanto, troppo tempo. Dal profilo Instagram @rainewsofficial, vi stiamo raccontando le storie che potrete approfondire su queste pagine con servizi dei telegiornali d'epoca e attuali, immagini, video e documenti. Questa settimana il caso di Sargonia Dankha.
Il “cold case” di cui vi parliamo oggi è avvenuto in Svezia e ha come vittima una ragazza svedese di origini irachene. Ma il caso è stato riaperto da poco qui in Italia.
Sargonia Dankha è una studentessa di 21 anni. L’ultima volta che viene avvistata è nella sua città, Linköping, nella Svezia meridionale, il pomeriggio del 13 novembre del 1995. Per la sua scomparsa viene arrestato il compagno, Salvatore Aldobrandi, un pizzaiolo italiano all’epoca dei fatti 45enne.
Nella casa e nell’auto dell’uomo vengono trovate tracce di sangue di Sargonia. Ma per la legge svedese non si può procedere per omicidio in assenza del cadavere, così Aldobrandi viene rilasciato e ritenuto innocente, come lui si è sempre dichiarato.
Qualche anno fa Aldobrandi ritorna a vivere in Italia, a Sanremo. Finché, lo scorso giugno , l'uomo che adesso ha 73 anni, viene arrestato e rinviato a giudizio dalla Procura di Imperia. La denuncia che fa riaprire il caso è arrivata dalla famiglia di Sargonia. L’accusa contro di lui è pesante: omicidio aggravato dai motivi abietti e futili, e occultamento di cadavere.
Il caso di Alessia Rosati si apre a Roma 30 anni fa, quando la studentessa 21enne esce di casa, il 23 luglio del 1994, per accompagnare l’amica Claudia a sostenere l’esame di maturità. A casa non tornerà più.
Dopo tre giorni, Claudia riceve una lettera da Alessia. Almeno la calligrafia sembra quella dell’amica. Alessia le scrive di avere incontrato una vecchia amicizia e di avere deciso di viaggiare per l’Europa con questa persona. Di chi si tratta? Non si è mai saputo. Da allora di Alessia si sono perse completamente le tracce.
Il caso viene archiviato come allontanamento volontario, ma di recente la procura di Roma ha aperto un fascicolo per vederci chiaro. Ci sono diverse incongruenze nella lettera che Alessia ha spedito a Claudia, elementi che potrebbero far pensare a un depistaggio o a una messinscena. Inoltre, c’è chi negli ultimi anni ha avanzato l’ipotesi di possibili collegamenti tra la scomparsa di Alessia e i casi di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, scomparse undici anni prima.
Oggi vi parliamo di un caso di femminicidio dal quale traspare tanta crudeltà
e doppiezza.
Alessandro Impagnatiello è un barman di 30 anni. Lavora in un hotel di lusso di Milano. La sera del 27 maggio 2023 accoltella e uccide la convivente, Giulia Tramontano, 29 anni, incinta di sette mesi. Compie il delitto nella loro casa di Senago, a nord di Milano. Sferra contro di lei 37 coltellate, poi tenta di darle fuoco nella vasca da bagno.
Dopo quattro giorni di ricerche il corpo di Giulia viene trovato, coperto da buste di plastica, non lontano dalla casa della coppia. E’ lo stesso Impagnatiello a indicare ai carabinieri dove ha nascosto il cadavere, dopo avere confessato l’omicidio.
Giulia aveva scoperto che il suo convivente aveva una relazione parallela con una collega di lavoro. Proprio il giorno in cui viene uccisa, Giulia incontra
l’altra donna per avere conferma da lei della relazione. Quando torna a casa scoppia il litigio e Impagnatiello la uccide.
L’autopsia sul corpo di Giulia Tramontano rivela tracce di topicida nel sangue suo e del feto che porta in grembo. Il barman ha tentato di avvelenare la
convivente incinta, effettuando anche specifiche ricerche su internet.
Nella Giornata contro la violenza sulle donne, lo scorso 25 novembre, è partito il progetto di RaiNews.it dedicato a quelle donne e ragazze uccise sulla cui sorte non è ancora stata fatta giustizia. Oppure casi che non sono stati risolti dopo tanto, troppo tempo. Dal profilo Instagram @rainewsofficial, vi racconteremo le storie che potrete approfondire su queste pagine con servizi dei telegiornali d'epoca e attuali, immagini, video e documenti. Questa settimana il caso di Sibora Gagani.
Un “cold case” risolto dopo quasi dieci anni di buio. Sibòra Gagani è una ragazza di origini italo-albanesi. Vive a Nettuno, dove fa la barista. A 18 anni incontra Marco Gaio Romeo, che di anni ne ha 31. La madre di Sibòra, Elisabetta, dice che sua figlia è molto innamorata dell’uomo, che però a lei non è mai piaciuto.
Il trasferimento in Andalusia e la scomparsa
Nel 2011 Sibòra decide di seguire il compagno a Torremolinos, sulla Costa del Sol, in Andalusia. Sua madre, qualche anno dopo, la va a trovare e assiste a violente litigate tra lei e il suo convivente. Marco Romeo è un tipo geloso e possessivo. Sibòra si sente sempre più oppressa dai suoi comportamenti persecutori fino a decidere di mettere fine alla relazione. Da luglio 2014 di Sibora si perdono le tracce. Marco Romeo telefona alla madre della ragazza per dirle che sua figlia è andata via di casa, dopo l’ennesima litigata. Ma Elisabetta non crede alle parole dell’uomo.
Nella Giornata contro la violenza sulle donne, parte il progetto di RaiNews.it dedicato a quelle donne e ragazze uccise sulla cui sorte non è ancora stata fatta giustizia. Dal profilo Instagram @rainewsofficial, vi racconteremo le storie che potrete approfondire su queste pagine con servizi del telegiornale d'epoca e attuali, immagini, video e documenti. Questa settimana il caso di Serena Mollicone.
Serena Mollicone ha 18 anni e vive ad Arce, un piccolo comune del Frusinate.
La mattina del 1 giugno 2001 esce di casa per fare una radiografia ai denti e non torna più a casa. La mattina di due giorni dopo viene trovato un cadavere in un bosco nei dintorni di Arce. È il corpo di Serena. Qualcuno ha tentato di nasconderlo sotto le foglie e dietro un bidone abbandonato. La testa ha una ferita sul sopracciglio sinistro ed è avvolta in un sacchetto di plastica. Mani, piedi e bocca sono avvolti dal nastro adesivo.
L’11 aprile 2008 Santino Tuzi, carabiniere della caserma di Arce, si toglie la vita con un colpo di pistola. Il brigadiere qualche giorno prima ha raccontato agli inquirenti che il giorno della scomparsa di Serena, una ragazza molto simile a lei, è entrata in caserma intorno alle 11 e non è più uscita. Tre anni dopo vengono iscritti nel registro degli indagati l’ex comandante della stazione dei Carabinieri di Arce, Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco. L’accusa è di omicidio volontario e occultamento di cadavere.
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